“INDIAN SUMMER” DEI DOORS: UNA AFFASCINANTE BALLAD DEL 1966


“Indian Summer” è una espressione, ormai obsoleta, usata negli Stati Uniti per indicare un breve ed inusuale periodo di temperature miti che talvolta si verifica nei mesi autunnali.

Jim Morrison coglie la carica evocativa di questa locuzione per dare vita alla canzone dei Doors dall’omonimo titolo, la cui concezione può essere datata nei primi mesi del percorso intrapreso dal gruppo: la prima parte del 1966.

Si tratta di una dolce ballad rock nella quale un sognante sentimento d’amore si riveste di suoni onirici e sommessi per fare la sua comparsa sulla soglia della psichedelia.

Il testo della composizione riflette una sfaccettatura significativa della personalità sentimentale del cantante dei Doors.

Infatti, i concisi versi del pezzo esplicitano la tendenza di Morrison a privilegiare il rapporto con una ragazza in particolare, senza per questo escludere una serie di avventure parallele vissute in contemporanea a quella principale.

Ecco a titolo esemplificativo le parole del brano: “I love you / the best / Better than all / the rest / That I meet / In the Summer / Indian summer” (in italiano: “Ti amo / più di tutte / Più di tutte / le altre / Che incontro / Nell’estate / Nell’estate indiana”).

Tuttavia, con il titolo “Indian Summer” viene anche posto l’accento su di un arrangiamento ispirato al crescente interesse dei musicisti americani ed inglesi per la musica del subcontinente indiano.

Da “Norwegian Wood” dei Beatles (dicembre 1965) a “Paint It Black” dei Rolling Stones (Maggio 1966), la musica indiana era entrata a fare parte della musica pop-rock e rock per poi divenire ufficialmente una importante componente della psichedelia con “Love You Too” (ancora dei Beatles, agosto 1966).

Questa tendenza era dunque pienamente affermata nel momento in cui i Doors si apprestavano a registrare il loro primo LP (“The Doors”), vale a dire alla fine dell’agosto 1966.

Tra i brani provati e messi su nastro per il debutto della band californiana figurava, appunto, anche “Indian Summer”.

Al suo interno, sono tre gli elementi che richiamano la musica indiana.

Il più immediato è determinato dalla languida linea chitarristica ideata da Robby Krieger, la quale è costituita da tenui fraseggi ispirati al suono del sitar (il più celebre strumento indiano a corde).

Lo stesso stile si prolunga con vivace eloquenza anche nel breve assolo: una coinvolgente quanto fuggevole escursione nei temi raga rock che in quel periodo Krieger stava indagando dal punto di vista tecnico e culturale.

Meno evidente nel suo legame con la musica indiana, ma altrettanto suggestiva nel dispiegarne l’esotico incantesimo, è la traiettoria vocale tenuta da Morrison nella strofa.

Con le sue cadenze allo stesso tempo solenni e oscillanti, il canto del frontman dei Doors allude soavemente alle seduzioni dell’oriente (dal min. 0.17 al min. 1.02 e dal min. 2.00 al min. 2.26).

In fine, da segnalare sono le figure percussive disegnate dai tamburi e dall’hi hat di John Densmore. Simulando vagamente il pattern di quella che nella musica indiana è la tabla, egli colloca con misurata sensibilità profondi contrappunti ritmici sullo sfondo della strofa.

Il ritornello si distacca da quanto appena detto riguardo alla strofa per mezzo degli echeggianti rintocchi battuti da Densmore sul bordo del tamburo rullante e per un andamento d’insieme leggermente più animato.

Abbandonando i riferimenti alla musica indiana, ma lasciando inalterato l’etereo feeling complessivo della canzone, il ritornello risulta di grande rilievo nell’assegnare al genere Rock le inedite sfumature di un estatico rapimento interiore.

I fattori musicali che compongono “Indian Summer” vengono efficacemente combinati tra loro per insaporirne e diversificarne la struttura: strofa – ritornello – assolo – ritornello – strofa.

Questa intelaiatura è sostenuta dalle scure e soffici note del Fender Rhodes Piano Bass suonato con la mano sinistra da Ray Manzarek (una corta tastiera che riproduce le frequenze del basso elettrico e, in questo caso, lo sostituisce).

Le parti del basso così ottenute assumono un aspetto smussato, conferendo un’aura di nostalgica tenerezza all’intera composizione.

Inoltre, il tastierista interviene con delicata espressività all’organo elettrico (Vox Continental) nella parte centrale della traccia (dal min. 1.03 al min. 1.58).

Per meno di un minuto, il suo strumento emana una impalpabile corrente di suono, acuta e lieve, come un sottile raggio di luce versato sull'intimo risveglio di due amanti.

Il brano è interamente immerso in un intenso riverbero, capace di levigare ogni asperità sonora e di avvolgere la musica in un caldo bagliore.

A beneficiare particolarmente di questa evanescente distorsione è la voce di Morrison.

In questo modo, la parte vocale di “Indian Summer”, registrata in una apposita stanza al fine di accentuarne il riverbero, si ammanta di un sentimento al tempo stesso struggente ed elusivo. Esso trascende l’amore contenuto nelle parole del testo per delineare la trama segreta di un’anima vulnerabile.

Morrison riesce nell’arduo compito di comunicare un ampio ventaglio di emozioni, talvolta contrastanti tra loro, riempiendo ogni singolo termine di molteplici significati.

Egli raggiunge questo notevole risultato con sorprendente e vivida spontaneità, senza forzare in alcun modo il suo canto, documentando per i posteri il talento naturale di un musicista geniale.

Appassionato affetto, malinconica tristezza ed una mistica commozione che abbraccia la vita intera con vibrante trasporto, si congiungono in una performance da annoverare tra le migliori della sua carriera.

Sebbene di grande qualità, “Indian Summer” non fu però ritenuta idonea ad entrare nella tracklist di “The Doors” (poi pubblicato nel gennaio 1967).

Tale esclusione è da imputare a due distinte motivazioni.

La prima è data dalla presenza nel disco di altre due meravigliose ballad, entrambe oggettivamente superiori (“The Crystal Ship” e “End Of The Night”).

La seconda ragione va ricondotta alla magniloquente traccia di chiusura dal disco (“The End”). In questo capolavoro assoluto ritroviamo il medesimo accordo introduttivo misteriosamente fluttuante, la chitarra influenzata dal sitar e la linea di basso che caratterizzano anche “Indian Summer”.

Considerando questo quadro, non stupisce che la composizione della quale stiamo parlando sia stata sacrificata.

In seguito, quest’ultima non troverà purtroppo spazio in nessuno dei tre LP successivi, venendo in fine recuperata per il quinto lavoro del gruppo: “Morrison Hotel”, pubblicato nel febbraio 1970.

Qui, la migliore tra le registrazioni di “Indian Summer” effettuate nell’agosto 1966 (qui il link) venne inserita senza alcuna modifica, consentendoci di apprezzare, seppure fuori contesto, le incantevoli atmosfere sonore create dai Doors all’inizio della loro carriera discografica.

Un’altra take risalente al ‘66, decisamente peggiore come qualità audio di quella destinata a “Morrison Hotel” e nella quale si sente la voce del produttore Paul Rothchild dare suggerimenti, rimane invece in archivio come complemento storico (qui il link).

Nonostante il divario di tre anni e mezzo tra registrazione e pubblicazione (agosto 1966 - febbraio ’70), la versione ufficiale di “Indian Summer” che troviamo su “Morrison Hotel” rimane una canzone estremamente fascinosa.


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