THE DOORS LIVE IN OHIO NEL NOVEMBRE 1968: ANALISI DEL BOOTLEG
Il 2 novembre
1968 a Columbus, capitale dell’Ohio, si respirava un’aria tesa.
La società e le
autorità locali non erano per nulla ben disposte verso il sopraggiungere in
città dei Doors, un gruppo rock trasgressivo, al massimo della propria fama e
portavoce della controcultura giovanile che stava modificando in senso
libertario il volto degli Stati Uniti.
In particolare,
era il frontman della band, Jim Morrison, ad essere sgradito in quanto
percepito come una insidiosa minaccia alla moralità della gioventù cittadina.
Egli veniva
considerato un elemento eversivo, pronto ad avvelenare i valori del Midwest
americano con la sua celebrazione della sensualità ed il suo abbondante uso
pubblico di espressioni verbali e fisiche allora ritenute inaccettabili.
Lo spettacolo del
2 novembre ’68 fu quindi accolto da una duplice inclinazione da parte dei
cittadini di Columbus: indispettita ostilità e sospettoso sdegno provenivano
dai genitori; eccitata curiosità e ribelle ammirazione per quanto riguardava
invece le giovani generazioni.
I Doors si
esibirono in questa occasione per la terza volta dal loro ritorno negli Stati
Uniti dopo un tour europeo conclusosi il 20 settembre ‘68 ().
Morrison non
indossava più i celebri pantaloni di pelle (fatte salve altre quattro occasioni
tra la fine del ’68 e la primavera del ’69 essi vennero proprio in questo
periodo definitivamente accantonati) in favore di un abbigliamento decisamente
più sobrio: pantaloni bianchi e un maglioncino rosso.
Ai posteri è purtroppo
pervenuto solamente un breve bootleg del concerto di Columbus, il quale
comprende l’inizio dello show e il primo brano suonato dal quartetto
californiano (in tutto otto minuti).
In compenso,
l’audio è soddisfacente per una registrazione amatoriale (qui il link,
comprensivo anche di rare riprese effettuate quella sera stessa).
A risaltare sono soprattutto
la voce e la chitarra elettrica, ma, prestando attenzione, è possibile
distinguere senza troppi sforzi anche le altre tre componenti del suono live
della band: organo elettrico, batteria e Fender Rhodes piano bass (una piccola
tastiera suonata con la mano sinistra da Ray Manzarek in sostituzione del basso
elettrico).
Dopo un asciutto messaggio
del presentatore (“Good evening… there you go… The Doors”), prende
immediatamente il via la pulsante e sinuosa introduzione di “Back Door Man”
(una cover del blues originariamente scritto da Willie Dixon e inciso da
Howling Wolf nel 1960).
Pochi secondi più
tardi un grido graffiante, ma allo stesso tempo drammaticamente espressivo, libera
la vivida onda d’urto, ora abrasiva ora ammaliante, che qui caratterizza la
voce di Morrison.
Essa avvolge con seducente
forza il segmento iniziale del brano, conducendolo nelle sue prime emozionanti fasi
e interrompendone poi il magnetico flusso per mezzo di un altro tagliente urlo
liberatorio.
L’assolo di Robby
Krieger alla chitarra elettrica irrompe disinvolto, allontanandosi parzialmente
da quello che possiamo udire nella versione di “Back Door Man” che troviamo come traccia numero sette all’interno del primo LP dei Doors (“The Doors”,
pubblicato nel gennaio 1967).
Tra le variazioni
inserite dal chitarrista sul palco di Columbus figurano note più marcate e
dinamiche nei loro serrati volteggi nonché un incedere complessivo maggiormente
incisivo e coinvolgente.
Una parte
solistica che, agitandosi inquieta tra il rock’n’roll di Chuck Berry e il rock
di fine anni ’60, appare come migliorativa rispetto a quella che compare sul
vinile.
Appena
affievolitasi la vivace elettricità proiettata dalla chitarra di Krieger, la
composizione assume la misteriosa traiettoria dell’improvvisazione.
Per più di metà
del brano, infatti, Morrison dà vita ad un susseguirsi di versi poetici, accompagnati
con creativa prontezza dal resto della formazione in un fosco e onirico corteo
sonoro.
Guidato con un
ritmo uniforme e vibrante di cupa energia dalla batteria di John Densmore e dal
Fender Rhodes piano bass di Manzarek, questo percorso tipico dei live dei Doors
costituisce la scenografia perfetta per le criptiche evoluzioni liriche del
cantante.
Esse si snodano
attraverso un pattern vocale rilassato, nel quale le vocali si prolungano, distendendosi
sul pubblico come una irriverente invocazione pagana.
Allo stesso tempo,
la recitazione, modulata in forma di salmodiante melodia, è sorretta da una
cadenza ripetitiva, regolarmente interrotta da silenzi che sospingono in primo
piano il sottofondo strumentale e accrescono l’attesa dei versi successivi.
Da citare sono le
parole che, leggermente modificate, confluiranno di lì a pochi mesi nella suite
“The Soft Parade”, canzone di chiusura dell’omonimo album pubblicato nel luglio
1969: “It’s getting hard - gettin’ hard - harder - to describe – sailors -
to the underfed”.
Inoltre, a essere
chiamato in causa dalle divagazioni poetiche di Morrison è anche il tema
dell’autostoppista, un soggetto che percorrerà l’immaginario del cantante-poeta
per culminare nel testo di “Riders On The Storm” (traccia di chiusura del sesto
disco dei Doors, “L.A. Woman”, pubblicato nell’aprile 1971).
Come
risvegliandosi da un incantesimo grazie alle onde create dall’organo elettrico
(appena percettibili nel bootleg) e ai rarefatti fraseggi della chitarra
elettrica, Morrison annuncia, con un inaspettato “Ok!”, che l’improvvisazione è
terminata.
“Back Door Man”
ha in fine un ultimo sussulto, composto dalla sequenza strofa-ritornello-coda,
spegnendosi per fare spazio al resto del concerto.
Per quanto breve,
questo bootleg ci mostra la notevole apertura che i Doors eseguono a Columbus il
2 novembre ‘68, la quale, dopo averci affascinato, ci lascia con l’amarezza di
non poter ascoltare il resto della performance di quella magica serata.
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