I DOORS AL WINTERLAND BALLROOM: CONTESTO E PRIMA SERATA

 

I Doors giungono al termine del 1967 dopo un anno contrassegnato da una evoluzione artistica repentina nei tempi e stupefacente negli esiti.

Nel corso di quel magico anno, essi transitano dallo status di band californiana apprezzata prevalentemente a livello locale a quello di icona rock saldamente presente ai vertici delle classifiche di album e singoli negli USA.

Dopo aver portato il teatro e la poesia nella musica contemporanea il gruppo si era distinto per le originali sperimentazioni sonore e per la trasgressione del frontman Jim Morrison, posta a sostegno del crescente movimento culturale giovanile statunitense.

Già fautori di una musica qualitativamente eccellente, sul finire del ’67 i Doors si muovevano nell’ambito di un rock psichedelico rappresentato egregiamente dall’album capolavoro “Strange Days” (pubblicato in settembre).

Inoltre, il 9 dicembre Morrison viene arrestato direttamente sul palco di New Haven, creando un vasto scalpore mediatico rivestito tanto di indignazione quanto di eccitato interesse.

Provocatorio, geniale e imprevedibile, in questo caleidoscopico contesto il quartetto viene ingaggiato per tre serate (26, 27 e 28 dicembre ’67) al Winterland Ballroom di San Francisco.

Fortunatamente esiste un bootleg, dall’audio sufficientemente nitido, di due dei tre concerti (la prima data e l’ultima), tuttavia il documento sonoro in questione non può essere definito propriamente di buona qualità.

Ne emerge comunque una testimonianza musicale rilevante e affascinante, nella quale la formazione californiana viene immortalata mentre distende il suo incantesimo elettrico dal vivo.

La prima performance si tiene, come già anticipato, il 26/12/1967 (qui il link) ed è su di essa che punteremo la nostra attenzione nel seguito di questo articolo.

Il live si apre con “Back Door Man” e “Break On Through (To The Other Side)”, due pezzi tra i più frequentemente eseguiti in concerto dalla band nonché entrambi inseriti nel primo album (“The Doors”, pubblicato nel gennaio 1967).

La voce di Morrison torva nella familiarità con questo materiale, leggermente prolungato rispetto alle tracce ufficiali, il mezzo opportuno per dispiegarsi nella sua declinazione aggressiva e profonda.

Il cantante non disdegna evocative incursioni improvvisate: folli risate, un frammento trasfigurato di “Don’t Fight It” (un brano soul di Wilson Pickett del 1965) e urla talvolta lugubri talvolta taglienti, le quali fanno da minaccioso complemento ai coinvolgenti disegni della chitarra elettrica di Robby Krieger.

La terza canzone è la suite “When The Music’s Over” (tratta dal già citato disco “Strange Days”), la quale, dopo avere attraversato un esteso periodo di trasformazioni, era stata incisa circa cinque mesi dell’esibizione che stiamo raccontando.

Sostanzialmente aderente all’originale su vinile, questa splendida composizione spicca qui per l’inaspettato intermezzo che Morrison inserisce prima dell’ultima sezione del pezzo.

Su di un rarefatto sottofondo strumentale sentiamo infatti librarsi le parole: “Poor Otis’ dead and gone, left me here to sing his song” (in italiano: “Il povero Otis è morto e mi ha lasciato qui a cantare la sua canzone”).

Il riferimento è a Otis Redding, figura di capitale importanza per la storia del soul e non solo, il quale trovò una tragica morte due settimane prima di questo concerto. Egli doveva apparire quella sera al Winterland Ballroom come show di apertura per i Doors e venne sostituito da Chuck Berry e dai Salvation (da sentire il loro album omonimo pubblicato nel ‘67).

Il toccante ricordo che Morrison dedica a Redding, incastonandolo sinuosamente nel ritmo e nella struttura di “When The Music’s Over”, utilizza un motivo folk-blues registrato dal celeberrimo Lead Belly nel 1939 e intitolato “Poor Howard”. Esso viene modificato nel nome del protagonista per rendere omaggio a Otis Redding: “Poor Otis…”.

Il verso successivo recita invece: “Pretty little girl with the red dress on, left me here to sing his song” (in italiano: “La bella ragazza dal vestito rosso, mi ha lasciato qui a cantare la sua canzone”).

Estrapolata anch’essa dallo stesso brano di Lead Belly, quest’ultima citazione poetico-musicale verrà ripresa tempo dopo, sempre cantata da Morrison, nell’introduzione della canzone “Runnin’ Blue”, scritta dal chitarrista della band Robby Krieger e inclusa nell’LP “The Soft Parade” (pubblicato nel luglio 1969).

Subito dopo, “Close To You” (cover di un blues di Muddy Waters del 1958, ma scritto da Willie Dixon) consente a Ray Manzarek di sfoggiare con energia ed entusiasmo la propria voce mentre Morrison prende qualche minuto di riposo.

Il brano viene però bruscamente interrotto poco prima della fine da Manzarek stesso, il quale sembra ripetere con enfasi “We lost it!” (in italiano “La abbiamo persa!”).

Questa temporanea svista viene immediatamente fatta dimenticare dagli incisivi stop and go impressi con determinazione alle note iniziali di “I’m A Man” (un rhythm and blues di Bo Diddley del 1955), ancora una volta cantata da Manzarek.

Decisamente più interessante della precedente, questa seconda cover dilata significativamente la hit di Bo Diddley portandola da 2.44 minuti a più di 7 minuti.

Assistiamo qui ad un esteso crescendo di intensità, lungo un testo estemporaneo creato appositamente dal tastierista strofa dopo strofa, giungendo ad un canto quasi rabbioso che si dissolve in un dilagante assolo di organo elettrico.

I battiti di mani del pubblico fanno da introduzione all’ultima canzone contenuta nel bootleg del 26 dicembre al Winterland Ballroom: “Light My Fire” (andata al primo posto come singolo alla fine di luglio 1967, dunque cinque mesi prima di questo live).

La resa di questo classico dei Doors è imbastita in maniera complessivamente lineare. L’high light è costituito dai cinquanta secondi finali dell’assolo di Manzarek all’organo elettrico, dove i suoi serrati e acuti accordi si susseguono accelerando progressivamente per descrivere una ammaliante cacofonia sonora.

I Doors erano assidui frequentatori della scena musicale di San Francisco (circa 35 concerti dalla band in questa città solamente nel 1967).

Va segnalato che probabilmente il bootleg appena passato in rassegna non è esaustivo della scaletta suonata quella sera a San Francisco.

In esso ritroviamo comunque lo spirito di un gruppo all’apice della propria sublime espressività musicale, capace di transitare dal blues elettrico alle astrazioni strumentali, fino alla poetica rock per la quale i Doors non saranno mai abbastanza celebrati.


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